Nel centenario della morte di C̆ajkovskij

I cento anni che ci separano dalla morte di Piotor Ilic C̆ajkovskij ci trovano finalmente liberati dalle riserve di una musicologia frettolosa,  prigioniera delle  categorie  storiche e vittima di suddivisioni  meccaniche dei valori estetici secondo una logica  estremamente carente di elasticità. Di decennio in decennio etichette e veli sono caduti ed è giunto, ormai,  il momento, dopo il miracolo compiutosi a favore di Puccini, di restituire al musicista russo la  sua posizione preminente fra i grandi maestri dell’800, proprio in quanto nella sua opera vanno in frantumi gli insegnamenti della vecchia scuola di Rubinstein, il tetragono conservatore che sarà misteriosamente anche il maestro di Strawinsky: cioè,  la spinta innovatrice dell’arte di C̆ajkovskij è nel celebrare la vecchia scuola con una decantazione di lussureggiante romanticismo, inserendo  nel tessuto connettivo di questo i germi di una creatività tutta di là da venire, in una modernità che farà di Eugenio Oniegin e della Dama di Picche l’atto costitutivo della nascita dell’opera moderna frazionata in “tableaux” che si susseguono freneticamente, come accadrà dopo nelle opere di Prokofiev e addirittura nel Woyzech di Alban Berg. Tale modernità che appare in trasparenza alla lettura scrupolosa delle partiture operistiche e sinfoniche, balza ancor più evidente nel riascolto attento dei Balletti, proprio quei Balletti  ritenuti da una critica superficiale “opere minori”  che minori appaiono solo perché travisati da esecuzioni di comodo, nelle quali le orchestre si considerano un  po’ in vacanza e i direttori  sembrano preoccupati nello staccar tempi comodi alla declinante leggerezza delle primedonne. Occorre infatti imbattersi in qualche fortunato incontro discografico per rendersi conto della straripante creatività e della teatralissima inventiva di un musicista istintivamente proiettato a liberare la facile cantabilità da ogni scoria di ovvio per riempirla di ininterrotti e guizzanti teoremi propositivi.

Le partiture dei Balletti  insieme a quelle delle Sei Sinfonie e delle Ouvertures -anche queste, forse, scritte per la danza- sono il diagramma perfetto della lucidità che guida l’inseguirsi inesorabile e autobiografico di forza e di fragilità: se la fragilità nasce da vicende personali, sulle quali è superfluo insistere dopo la vivacissima versione cinematografica di Ken Russell, la forza nasce dall’aver mantenuta intatta la matrice russa del dolore, un dolore che ha alle spalle le vicende di un grande popolo e le testimonianze di una strepitosa letteratura capace di compendiare e anticipare scoperte esistenziali solo in seguito recepite dalla cultura occidentale. La matrice assolutamente russa dà una collocazione diversa anche all’associarsi del musicista ai languori e agli struggimenti del romanticismo, rendendolo non più lacrimevole e sentimentalistico, né vessillifero e autodistruttivo, ma incanalato verso l’humus più sorgivo del sentimento, quello che porterà la musica russa a un discorso ininterrotto che arriverà -oltre la violenza dell’arco sulle tormentate corde del violino  nel concerto op. 35 in re maggiore-  fino al pianto della madre sul campo di battaglia  nell’Ivan il Terribile di Prokofiev. Del resto la Storia ha dato ragione seppure inconsapevole a questi valori.

I cento anni dalla morte sono celebrati, infatti, dalla fortuna incessante di un C̆ajkovskij che, pur amato in patria, varca i confini dell’oceano per approdare alla Carnegie Hall, rimanendovi ospite stabile, consegnato alle mani amorose di tutti i più grandi direttori e di tutti i più grandi solisti  del 900. Né il succedersi di eventi politici in patria gli riserberà momenti di ostilità partitiche.

Nelle vicende di una vita che appare sregolata e nella continua tensione di uno spirito che, seguendo le leggi demoniache di Dostoewskij, era costantemente in lotta tra verità effimere e supposizioni seducenti, dilaniato, cioè, da quella duplicità di tendenze che conducono inevitabilmente all’annullamento dei valori tradizionali e alla dannazione di una ricerca senza meta, possiamo trovare una risposta al mai chiarito problema di una morte apparsa, ora fatale, ora perseguita. Lo smalto timbrico della tastiera martellante che apre il Primo concerto per pianoforte e orchestra s’impone come un avvertimento a non cadere in facili tentazioni valutative sulle qualità umane ed artistiche di  un musicista, il quale fu sempre conseguente a se stesso anche nell’arco della produzione cameristica, in cui non c’è cedimento di sorta  a locuzioni di uso corrente, ma solo un’inesauribile, fremente, sfavillante esercitazione di stile (25 Ottobre 1993).

Queste poche note non pretendono di  esaurire la  lettura critica dell’opera  del   popolare musicista russo, poiché sono nate solo dal desiderio di pagare il mio personale  tributo di riconoscenza alla cultura e a un grande musicista che  ha offerto la più bella lezione  di romanticismo riscattato dalla  categoria storica e dalle arbitrarie manifestazioni patologiche del sentimento, facendo rivivere  quelli che sono stati i suoi tormenti, le sue ansie, i suoi turbamenti,  in nobili immagini di eternità dialoganti con l’ascoltatore, perché lo guidino   al risveglio del “pensiero del cuore” e alla visione della bellezza – già rivelatasi all’artista in fase di creazione-, luce aurorale di uno stato di libertà, di verità assoluta.

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