Quanti presentatori devono piacere al pubblico degli spettatori, devono farlo rilassare e, forse, godere! Privi del physique du rôle e di pedigree culturale, questi incontrollati intrattenitori ricorrono a tutti i mezzi, che forse sono uno solo: urlare, mimare, muoversi a vuoto, come i buffoni della Commedia dell’Arte. Purtroppo somigliano troppo a se stessi, perché non portano la maschera; anzi, la portano, ma la maschera è identica a loro. E che la maschera ci sia, si capisce dal modo di parlare al pubblico, che non è lo stesso con cui parlerebbero ai loro familiari, ai fornitori, ai creditori, ma è un modo acquisito per induzione da maschera che fa scattare automatismi, cliché triti e ritriti, comuni a tanti altri “spiritosi” di dozzina in funzione divertente: battutine seriali, forte acciaccatura sulle sillabe, intercalari vuoti di senso, scialbi ammiccamenti per una seconda comunicazione sottesa al messaggio apparente e nullo, risolini e sorrisetti ad abbondanza e altre insulse trovate, cui fa da disarmonico contrappunto l’applauso sguaiato del pubblico in sala invitato e suggestionato per creare rumore e movimento.
Ammettiamo, ma non concediamo, che una celebrità come Pippo Baudo, dopo anni e anni di militanza in TV, sia ancora in grado di secernere appeal per il grosso pubblico: è probabile che il tempo abbia sfrondato il troppo e il vano per evidenziare qualche screziatura umana capace di connotarlo. Ma la massa degli anchorman è imperdonabile, perché fa passare per le forche caudine delle loro chiassose “spiritosaggini” anche i personaggi celebri che, purtroppo, si prestano a intervenire in insulse trasmissioni, invece di restarsene in casa a fare altro di più serio. Eppure, sono loro, i presentatori, che concorrono per il lancio degli eventi televisivi! C’è il lavoro di un anno per preparare una nuova edizione del Festival di Sanremo -il più stento spettacolo del mondo- che lega le sue sorti alla scelta giusta della personalità rispondente alle attese pilotate dei telespettatori: sulle indicazioni delle ricerche di mercato, si traccia un identikit e si cerca in tutte le categorie di “notabili”. Il risultato è sempre deludente, perché è deludente quello che il presentatore deve inviare al pubblico, di sbiadito e di inutile, di rumoroso e di volgare, di sgangherato e di spropositato. Ma insomma, dove sta scritto che il divertimento si fa con il chiasso, che lo “spirito” si ottiene, ritornando allo stato di scimmie e che la simpatia è nell’autoeccitazione? E Charlot? E Petrolini? E Totò? Ci hanno saputo intrattenere e ci hanno fatto tanto ridere con le loro smorfie umane, spesso amare, le sole, tuttavia in grado di comunicare il senso di relatività delle piccole miserie mediate dalle loro maschere e nello stesso tempo di smuovere il riso, perché conoscevano l’arte di distorcere la natura e di distogliere per qualche istante dalle fonti autentiche del patire, dove l’umanità sosta senza consolazione e senza soluzione di continuità.
E poi, chi ha detto che bisogna far ridere il pubblico? Il pubblico che ride, purtroppo, è sempre lo stesso, inconsapevole, abbrutito dalla disinformazione spettacolarizzata; quello a cui Fedro, l’antico autore di favolette morali, aveva rivolto la sua freccia avvelenata: Quid rides? De te fabula narratur (Che ti ridi? La storia parla proprio di te). Il pubblico italiano, in particolare, è stato abituato dal cinema a ridere a proprie spese, con la cosiddetta “commedia all’italiana”, dove il nostro quotidiano, sempre uguale, è cinicamente ridicolizzato, senza pietà e spesso senza finalità conoscitive. Nel “secolo d’oro” della letteratura francese il grande drammaturgo Jean Racine sosteneva -a torto- che è più facile far ridere che far piangere. Andò oltre la sua affermazione il grande Molière con le sue commedie che fecero ridere, ma si spinsero sempre oltre, fino all’apparire della tragedia delineatasi lentamente tra le pieghe delle situazioni più comiche e al cristallizzarsi del riso in amara smorfia di ripensamento (14 agosto 1994).