Il sesso? Si fa con lo spot

Divertente lo sketch di Beppe Grillo in cui l’intelligente comico genovese sostiene che se uno ha voglia di ridere, basta che passi in pasticceria e compri un paio d’etti di panna montata. E certamente, fin dalle comiche del cinema muto, la torta in faccia che fa ridere è solo quella alla panna: tanto è vero, dice Grillo, che se fosse una crostata, si sbriciolerebbe, sbattendo sul viso, e non smuoverebbe il riso di nessuno. Il ragionamento fila a meraviglia e, dunque, è proprio la panna che fa ridere, essa e essa sola. Da questa affermazione scaturiscono dei corollari istruttivi: se, per esempio abbiamo voglia di andare al Luna Park, non si renderà necessario recarvisi realmente, ma potremo essere soddisfatti, poggiando con intensità lo sguardo su qualcuno che indossa  lo slip Cacharel reclamizzato in Tv con l’accompagnamento della celebre canzone cantata da Yves Montand,  Mon manège (la giostra) che dice, fra l’altro: “ Tu mi fai girar la testa … la mia giostra sei tu.” E ancora: se ci  accende un’ardente e irrefrenabile  pulsione erotica, non tardiamo ad acquistare un Maxicono Motta, perché “più grande è,  più voglia c’è” e ci facciamo quello che vogliamo! E poi, per gli amanti del piacere è stato trovato “il braccialetto del benessere” sponsorizzato da una  larga dottoressa ben pesante  che nel suo nativo idioma italiota, non passato ancora alla censura di grammatica e sintassi (come del resto quello di tanti altri (ab)utenti della  telecomunicazione), assicura che ci appagherà di ogni desiderio. Un cremino Sammontana ci offrirà solo  il piacere di una gelida fellatio.

Il codice stringato  degli spot pubblicitari, si sa, tende sempre a un metalinguaggio più immediato, più suggestivo e di facile comunicatività, però: ammettiamo il valore feticistico dello slip Cacharel, motivato dalla sua aderenza al “balocco”   che accenderebbe per metonimia (o per sineddoche) la speranza e la brama cannibalesca per il possesso dell’indossatore; ma che un maxicono, fosse pure dotato di una forte suggestione mimetica, possa sollecitare un astratto desiderio, anche se in soggetti massimamente repressi, sembra più alla stregua di una pornodiva -spesso  tanto oscena, quanto inerotica- che di un semplice consumatore della Tv.

Ciò nondimeno, dobbiamo riconoscere agli spot televisivi un ruolo ampiamente sostitutivo dei programmi correnti (carenti), ripetitivi e sprovvisti di ogni interesse ancorché morboso,  e constatare la  continua evoluzione del linguaggio pubblicitario che cerca di interpretare i pruriti di spettatori frustrati dai noiosi palinsesti Rai e  Mediaset. Tuttavia, la sua forza maggiore lo spot la trae dal fatto di irrompere repentinamente sul teleschermo e interrompere a suo arbitrio qualsiasi  show, o talk show  sponsorizzato, offrendo ad essi una pausa di decantazione e allo spettatore  una pausa di distrazione che, stando così le cose, non può che essere benefica.

Infine, la sostanza dello spot  è una promessa di felicità legata a un bene di consumo, o quantomeno,  è un messaggio  di migliorismo affidato alle forme catartiche e liberatorie della pubblicità: se questo può bastare per essere ottimisti, ben venga: Viva lo spot!  D’altra parte, l’alternativa priva di spot può essere  una vita vissuta “nella speranza di vivere”, come affermava Pascal, qualche secolo fa, oppure “al cinque per cento” che, per Eugenio Montale, è tutto quello che  l’uomo riesce a realizzare. Perciò, Mamma TV ha privilegiato lo spot e con la sua crescente spinta all’altruismo e alla prodigalità ne riversa a valanghe sulle reti indifese, con il rischio, però, di asfissia per  gli inermi telespettatori incollati al telecomando (9 agosto 1994).

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