La scrittura romantica, in Francia, fu animata dal gusto borghese per la teatralità: dall’illusionismo scenografico di Balzac alle ossessive e claustrofile atmosfere di Victor Hugo; dalle fantasmagorie oniriche di Flaubert alle allucinate ambientazioni di Zola, fu una frenetica ricerca di visibilità spettacolare. Tale gusto decretò in musica l’affermazione e il successo del grand-opéra –spettacolo misto di musica, azione, balletto- rispondenti al voyeurismo del pubblico spensierato e gaudente dei justes millionnaires che andava al teatro per divertirsi, per incontrarsi e per consumare la cultura come prezzo della sua reputazione sociale.
Gli anni successivi alla sconfitta di Sédan determinarono un cambiamento del gusto legato all’avvento di una temperie culturale segnata dal malumore e dall’austerità che durò fino alla restaurazione della Terza Repubblica e allo scoppio della Belle Epoque. Fu durante quegli anni che la Francia si convertì a Wagner e al wagnerismo. L’ammaliatore germanico -che Nietzsche definì un istrione- era un genio teatrale e seppe conquistarsi i parigini su due versanti: se il cromatismo nel golfo mistico esasperava la spinta romantica alla deliquescenza e al mistero, le marce, le trombe e le fanfare apparvero come un grido di riscossa che ridestò l’orgoglio nazionalista ferito a Sédan, così come, in seguito, avrebbe agitato la smania di dominio e la follia di Hitler.
Ed eccoci, d’improvviso, alla prima della Carmen di Bizet a Parigi, nel 1875: uno choc per les honnêtes gens schiaffeggiati da una gitana appassionata e disinibita che, prima desidera un soldatino e lo spinge a disertare per lei, poi, quando ne è stufa, l’abbandona per seguire un focoso toreador. E non solo: il povero soldato testone e mammone s’illude di poter svolgere il ruolo di redentore, ignorando che, simbolicamente, una zingara non conosce redenzione, perché segue il suo buon istinto libertario e sfida perfino il destino -che essa conosce per aver letto nelle carte-, pur di non accettare compromessi ed essere libera, nella vita, come nella morte. Ebbene, tutto questo era il ripudio dei valori di rispettabilità borghese, sia etici che estetici, poiché, se la storia d’amore e morte turbava in profondità l’equilibrio precario degli spettatori, la musica che traduceva la violenza di quella passione con un realismo spasmodico e sanguigno senza filtri, investiva il pubblico e lo trascinava nel vortice del ritmo serrato di un baccanale erotico-autodistruttivo. Carmen era l’antidoto contro il narcotizzante wagnerismo che aveva stordito lo spettatore in un estenuante stato comatoso. L’opera fu fischiata e Bizet morì poco dopo di crepacuore, a 37 anni. Ma l’arte, ciò che vive e non può morire, non permise che la Carmen stazionasse nella quarantena riservata agli eventi sconvolgenti della cultura: l’opera entrò dopo qualche anno nella piccola lista dei capolavori, accanto al Don Giovanni, al Tristano, al Rosenkavalier. La doppia anima della Francia bifronte si era unificata e preparata ad accogliere un’opera turbinosa, trasgressiva e sovvertitrice, spettacolarmente scintillante, che spazzò via il manierismo wagneriano e liberò il campo alla insidiosa, insinuante eleganza della scuola francese e al genio nascente di Claude Débussy.
Carmen costruita per il teatro dai librettisti Meilhac e Halévy sul modello di Prosper Mérimée è lo spirito libero che ripudia restrizioni e convenzioni sociali; è l’istinto che reclama i suoi diritti e non accetta accomodamenti e sotterfugi per affermarsi nel pieno appagamento delle sue pulsioni, proprio come don Giovanni, del quale, anzi, Carmen potrebbe essere l’ennesima incarnazione adattata al clima romantico di rivendicazione femminile. Carmen, però, è più dirompente, perché è autentica; mentre don Giovanni è ambiguo, essendo costruito in funzione demoniaca e censoria.
Il mito di don Giovanni -un mito francese espatriato in Spagna e rientrato in Francia – affonda le sue radici fin nel medioevo (Le roman de Renart) e si consolida nel Settecento illuministico e nell’Ottocento romantico, dopo aver definito la sua nota fisionomia nell’età barocca, quando, cioè, il processo di imbrigliamento sociale e il riordino delle idee in senso autoritario e inquisitorio era stato completato e la donna era precipitata dal piedistallo su cui l’aveva innalzata la concezione idealistica medievale, per finire nel grigiore di una prigione domestica con il ruolo di angelo del focolare, di vestale dei valori che danno solidità sociale, sui quali vegliò il gretto maschilismo eretto a sistema. Ecco, allora, la maschera diabolica e perditrice di don Giovanni che, risvegliando la sensualità nelle donne costrette e diminuite, le sottraeva di fatto al rigore di regole comportamentali repressive -e indicative della paura collettiva di una società maschilista, sterilizzata e sessuofoba che assegnava all’eros solo la riproduzione della specie-, ma di diritto condannava a morte le trasgreditrici. E, dunque, dopo oltre due secoli di menzogne, Don Giovanni si strappa la maschera della censura ed appare una zingara senza veli, Carmen, per mostrare l’altra verità dell’eros: la donna non è la vestale del focolare, ma la vestale dell’amore, quello naturale dei sensi, liberato da ipoteche psichiche e istituzionali. Già, il Leporello mozartiano che conta nel suo catalogo oltre duemila conquiste tra donne di ogni classe sociale, di ogni genere, belle e brutte, giovani e vecchie, bionde e brune, ammicca, più che a un sovraccarico erotico del suo padrone, alla propensione alla trasgressione della donna socialmente diminuita e castigata, ma istintivamente libera, come Zerlina, la quale non resiste e cede -almeno nelle intenzioni- a don Giovanni lo stesso giorno in cui festeggia il suo matrimonio con il buon Masetto! Una situazione osé perfino per la mentalità di noi moderni emancipati, anche se, qualche decennio prima di Bizet, Soren Kierkgaard l’aveva prefigurata nell’immagine di un giovane che aiuta le ragazze a saltare un fosso, cingendole alla vita: “Sono esse stesse che gli corrono fra le braccia; egli le afferra e non meno svelto, non meno agile di loro le depone dall’altra parte del fosso della vita”. Accordando con Kierkgaard, quello che vuole don Giovanni -ogni dongiovanni, quello di Mozart compreso- è possedere le donne psichicamente, non fisicamente.
Dunque, l’esplosione di impulsi femminili voluta da Bizet colpiva nel cuore la farisaica borghesia della Terza Repubblica, erede della tradizione maschilista e paladina di un’etica sessuale oscurantista usata come “vernice per mascherare vaste aree di turbolenta ipocrisia”. La musica che scandisce parossisticamente ciò che avviene sul palcoscenico investì gli smarriti spettatori che avvertirono in quelle frenetiche armonie come un’eco minacciosa di una imminente apocalisse. Ma Carmen resistette per diventare un mito e per porsi nel tempo come la più grande opera lirica della Francia.
Il ventesimo secolo ha visto una serie infinite di riprese dell’opera di Bizet ed è esploso in un vero entusiasmo per l’eroina dopo il successo cinematografico degli anni 80 seguito al rilancio fatto da una greca doc, Maria Callas, nel 1965, in un’interpretazione discografica rimasta mirabile e memorabile nella storia della musica, della vocalità e, soprattutto, della mentalità: Carmen appare nel suo essere e nella sua autodistruzione come guidata dall’ancestrale presenza di un fato che riconduce nel clima della tragedia greca; essa vive nel furore passionale e funesto di Fedra e di Medea, ma si fa nel rifiuto di eventi segnati dal destino e dunque immobili, vestale di un sanguinario rituale irredentistico in cui, come in una corrida, è essa stessa la vittima. Alla lezione di “Maria”, credo, si sono ispirati Carlos Saura e Antonio Gades, scatenando quel fenomeno di natura selvaggia, che è Laura Del Sol, in un balletto serrato e mozzafiato, dove pulsa il caldo sangue spagnolo. Anche la Carmen di Francesco Rosi eseguita dall’insidiosa perversione di Julia M. Johnson e, infine, quella di Jean-Luc Godard e di Peter Brook trovano affinità e corrispondenze nella tragica “metafora del fiore di campo reciso dalla falce che livella i prati all’inglese delle ville signorili”. Così avevano voluto Mérimée e Bizet che condannarono a morte la loro eroina la quale risorse come mito per rappresentare l’inestinguibile anelito della donna -e, perché no? dell’uomo- alla liberazione da qualsiasi forma di tutela morale e sessuale (7 Agosto 1992).