Da Turandot alle femministe

Le vicende di Turandot narrate  in fiaba da Carlo Gozzi e tradotte in musica dalle laceranti notazioni armoniche di Giacomo Puccini, sono la formalizzazione estetica di un caso clinico di fissazione e di frigidità -cui è condannata  da ereditarie turbe psichiche una principessa imperiale- risolto dalla irrompente passione di un principe azzurro capace di  rimuovere il blocco glaciale dal quale è sconvolta l’incrudelita principessa che, infine, cede e si sottomette al suo focoso conquistatore, come è normale nell’immaginario romantico e nel rituale socio-amoroso delle civiltà più evolute.

Nel libro Il secondo sesso, Simone de Beauvoir afferma che “donna non si nasce, ma si diventa”: dunque, Turandot è diventata donna  per alimentare i pregiudizi femministi contro i maschi, ma poi, distrugge le sovrastrutture intellettualistiche e revanchiste e recupera la pari dignità,  seguendo le ragioni del cuore che la spingono verso colui che ha saputo risolvere tre difficili enigmi dei quali uno è Turandot, la donna. La fiaba è, dunque, a lieto fine, perché armonizza, rimuovendo gli ostacoli, la latente pulsione a reintegrarsi delle due metà scisse dall’originario uomo-donna e armonizza anche i nostri processi mentali predisposti al romanticismo e alle sollecitazioni del corteggiamento maschile fin da tempi remoti e anteriori al mito biblico della creazione che, invece, si è formato in epoca storica sulla sopravvivenza  di una mentalità antropocentrica: Dio avrebbe creato la donna da una parte dell’uomo, per poi riunirla a lui in un principio di ordine sul quale si sarebbe costruita l’organizzazione sociale. Il tentativo di sovvertire l’ordine che induce Eva a voler guidare Adamo, ha generato il trauma e i guasti che avrebbero segnato l’umanità in sempiterno.

Certo, da quel tempo di primigenia armonia ci si è troppo allontanati e la colpa è nel degrado morale che ha spinto l’uomo sociale, mosso dagli appetiti economici ad approfittare del suo ruolo attivo e distoglierlo per finalità pratiche e malvagie. Così è cambiato il costume sociale e con esso anche la normativa giuridica: la donna è diventata oggetto, merce di scambio, status symbol dell’uomo ed è precipitata per un transfert da causa a effetto al rango dell’essere inferiore e infido. Neppure quattro secoli fa, Richelieu alla testa di feroci inquisitori fallocrati sentenziava che “niente può nuocere di più allo stato che la donna”. A lui faceva eco il giurista Le Bret che osava asserire che “la natura, avendo creato la donna imperfetta, fragile, cedevole nel corpo e nello spirito l’ha sottomessa   alla potenza dell’uomo”. Ma ancor prima s’era potuto affermare che la donna era senza anima e non per metafora! E si potrebbe continuare ad andare indietro per trovare le stesse insensate, arbitrarie affermazioni.

E’ pur vero che il richiamo al mondo dell’immaginario nella nostra antica cultura rivela la formazione di archetipi femminili ambigui e poco rassicuranti: Fedra passionale e incestuosa, Medea vendicativa e sanguinaria, Pasifa lussuriosa e zoofila, le Baccanti mangiatrici di uomini, sono archetipi nati in chiave antifemminista e repressiva, o sono il frutto di una paura collettiva dei maschi per una residua e ineliminabile istintività femminile coltivata e strumentalizzata dalla natura nella sua meccanica spinta all’autoconservazione?

Comunque, è con animo sconfortato che ci rivolgiamo alla Storia, che ci restituisce un quadro di abusi e di sopraffazioni compiuto contro le donne, e alla Letteratura che, accordando alle donne, nella finzione, gli stessi privilegi di cui godono, nella pratica, gli uomini, ristabilisce l’equilibrio squilibrato, mandandole a morire ammazzate, o suicide (Carmen, Madame Bovary, Anna Karenina, etc.). Ed è con animo ancor più sconfortato che assistiamo oggi al proliferare di atteggiamenti e aneliti femminili che registrano un massimo di punto d’arrivo e di riscatto nell’omologarsi a funzioni, a caratteristiche, a suddivisioni sociali di quella categoria maschile che, pur godendo dei privilegi, aveva saputo riconoscere alle donne quei ruoli, quegli umori, quegli odori, quella evanescente e marcante presenza storico-sociale  contro cui esse vanno combattendo con metodi catastroficamente controproducenti per colpa della propaganda femminista che ad uno sguardo più attento risulta essere un ultimo tranello dell’ottuso maschilismo teso a perdere le donne con le loro stesse armi. La tendenza sempre più marcata nelle donne a voler ricoprire ruoli che ha ricoperto il sesso maschile sa più di puntigliosa brama di rivincita che di ragionato ritrovamento di equilibri, equilibri che non richiedono invasioni di campo, ma un meditato e pungente ricorso alla critica.

La dannazione del femminismo -e per femminismo  intendiamo quel vano cicaleccio sulla risaputa identità di diritti e doveri e sulla confusione dei sessi- è nella totale assenza di umorismo e di senso della relatività di cui soffre tuttora l’affaccendarsi di donne in carriera. Il loro peccaminoso desiderio di sottrarre agli uomini quelle effimere posizioni cui li ha condannati la storia non tiene conto di quanto questi debbano ancora crescere prima di iniziare la battaglia contro il  dover  essere quello che la storia ha imposto loro di essere. E’ l’esito vittorioso di quella battaglia che potrà dare l’avvio a un cambio di mentalità che porti a individuare e superare definitivamente e  non in via teorica differenze e confusioni. Ripetiamo: è solo il cambio di mentalità, lento, progressivo, ramificato, che potrà porre fine ad abusi e pregiudizi in ogni settore della vita sociale per prestare ascolto alla normativa giuridica e, insieme, per riconoscere liberamente il  prezioso contributo della recuperata femminilità all’armonizzazione naturale e sociale.

La pretese di una donna di voler dirigere un’orchestra può essere una sfida al dato storico e non merita alcuna censura; ma se questa orchestra viene configurata e vagheggiata come i “Mille” timpani, le “Mille” grancasse, i “Mille” tromboni della storica orchestra di Berlioz, il problema ci pare che debba risalire  piuttosto che le scale della Corte Costituzionale, gli ormai sconnessi e consunti  gradini di casa Freud. Il problema non cambia, se -come in un caso  riportato recentemente dalla stampa- al metaforico clangore dei “Mille” di Berlioz si sostituiscano gli aitanti componenti di una banda di Fiamme Gialle della Guardia di Finanze. E, voltando pagina, il problema resta se al posto di un fabbro e di un muratore avremo una “fabbra” e una “muratrice” (questi femminili non esistono nel dizionario), oppure, invece di una ricamatrice e di una manicure, avremo un ricamatore e un manicure. L’aver voluto, poi, indossare gli abiti maschili con le maleodoranti tennis rasoterra è stato per le donne il brutto risultato di una  vittoria di Pirro, almeno per i tanti che hanno coltivato l’archetipo femminile  attraverso l’arte che ce lo ha riproposto spesso  in immagini di sogno e di bellezza -perfino nelle leggiadre Madonne-, delle quali l’umanità ha bisogno per sopravvivere e non regredire fino all’ermafroditismo originario. Di sicuro, la confusione dei ruoli e dei sessi ha ottenuto finora un unico risultato pericoloso: la caduta dell’eros, della qualcosa dobbiamo dolerci (14 settembre 1993).

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