Che valore può assumere per la cultura una biografia, o meglio un’autobiografia di un illetterato, uscita dalla penna di due giornalisti, Alessandro Ferraù, conciso e cronachistico e Matilde Amorosi romantica e psicologizzante? Ci siamo posta la domanda per la quale abbiamo già pronta la risposta: un valore grandissimo, anche se questa volta dobbiamo congelare le questioni di stile per tentare di individuare i difficili percorsi della coscienza artistica di Totò alla ricerca della sua piena affermazione. Abbiamo seguito, cioè, le miserie e gli splendori di un’esistenza ricostruita su un diario e sui ricordi affettuosi di un buon amico, Alessandro Ferraù, che ha condotto l’operazione con lo zelo e l’acribia dell’economista, fino a esibirsi in una sorta di danza dei sette veli nella parte finale del libro, dove la carriera del grande attore “comico” è tradotta in una irreprensibile tabella dei tantissimi film girati tra il 1937 e il 1967, con i relativi incassi e numeri di spettatori.
Siamo uomini o caporali di Antonio De Curtis, in arte Totò, pubblicato per la prima volta nel 1952 a cura di Ferraù con la collaborazione di Eduardo Passarelli, ritorna riveduto e ampliato dopo un quarantennio di oblio. Oblio che, al di là delle riserve di ordine estetico senz’altro valide, ha tenuto dietro alla generale disattenzione di certa critica pavida e ritardataria nel capire i fenomeni artistici, la quale, perciò, ha inteso colpire proprio l’artista. Certo, la critica seria ha potuto di recente accogliere con freddezza il romanzo di Luchino Visconti, Angelo, pubblicato postumo contro la volontà dell’autore, uomo di cultura e artista immenso, come il principe De Curtis: però, il conte-regista aveva già goduto dei favori della stampa, ora smodatamente adorante, ora lucidamente consapevole, ma sempre riconoscente dei suoi meriti teatrali e cinematografici al punto di dissuaderlo dalle tentazioni di un’avventura che sarebbe stata solo letteraria e non all’altezza delle forme compiute dell’espressione scenica.
Per Totò le cose sono andate molto diversamente: bistrattato dalla critica, quasi ignorato dalla cultura ufficiale -si sa che gli italiani sono più abili nel distruggere un mito che a costruirlo- affidò alla scrittura (di altri) il desiderio di essere riconosciuto. Quindi, afferriamo l’occasione offertaci dalla Newton Compton Editrice per rifare i conti con un passato recente, frettoloso e provinciale, che aveva potuto scambiare Totò per un farceur di mestiere, sfruttato per lo più da registi di mezza tacca e da produttori squattrinati o mercenari, i quali, insensatamente. o incoscientemente, non avevano saputo neppure fiutare la fortuna che il caso metteva sulla loro strada e procurarsi qualche copione decente da sottoporre all’inventiva dell’attore napoletano. Oggi, il costante favore di un pubblico televisivo in espansione ha finito per riversarsi anche su quei registi e produttori senza qualità, che ostentano i loro nomi immortalati dal piccolo schermo, godendosi una celebrità riflessa che non avevano vagheggiata, né meritata. Totò ha compiuto uno dei suoi piccoli miracoli che gli varranno la santificazione proposta già da Federico Fellini, suo fratello nella “patria sconosciuta” degli artisti.
Eppure, proprio oggi con la mente sgombra dai pregiudizi e con l’animo afflitto dai tanti mali sociali, quei copioni raffazzonati, con i quali si affrontavano le realizzazioni di quei film, sembrano animarsi, vivificati dalla linfa vitale sgorgante dalla tradizione popolare dell’ “Arte” a cui Totò si rivolse per istinto più che per programma meditato, guidato dal senso della predestinazione dei grandi spiriti che gli indicò la forza generativa e lo slancio vitale emanante dalle stratificazioni della cultura popolare. Come è stato affermato, l’attore diviene attore, quando cessa di essere uomo per divenire una macchina recitativa, strumento di operazioni e di trasformazioni. Totò disegnò una marionetta con tutti i vizi mentali e linguistici dell’uomo medio fra popolano e borghese, vizi portati al paradosso da un’inventiva incessante della macchina-attore che interviene in forma sostitutiva agli esigui e inconsistenti brandelli di copione, dando vita a un fuoco di fila scoppiettante di bisticci, di ripetizioni calcolate, di infinite variazioni rotanti intorno a un nucleo dialettico (“a prescindere…”) che è puro pretesto per farsi una girandola di qui pro quo, di trovate verbali irresistibili e inessenziali al senso logico della frase. Alla fine di questa girandola e non più come la vecchia marionetta che si affloscia, una volta lasciati i fili, sortisce un uomo costantemente ironico e votato alla malinconia del quotidiano che a contatto di registi maiuscoli sa farsi tragedia assoluta, come ne L’oro di Napoli di Vittorio De Sica, o trasognata poesia, come in Uccellacci e Uccellini di Pier Paolo Pasolini. L’austero signore elegante, irreprensibile, vagheggiante titoli nobiliari e compagne impossibili è, così, completamente sgominato dal Totò, uomo qualsiasi, esempio di una prepotente napoletanità che fu tanto autentica e straziante solo se raffrontata a quella seguita per altra via da Eduardo De Filippo, il quale spinse la sua cifra stilistica fino al balbettio, al non detto, alla sospensione del gesto, perché l’atto, o il pensiero apparissero fisiologicamente dati.
Per concludere, vorremmo avanzare l’ipotesi che Totò, come Eduardo, fosse stato dotato di una forma di precognizione che lo pose, già per misteriosi mezzi naturali, all’avanguardia nei confronti del pubblico e della critica chiamati a giudicarlo. Solo oggi, infatti, ci è dato mettere un punto fermo su quanto fino a ieri ci incuriosiva e ci divertiva, ma non ci dava ancora la sensazione precisa di come il grande attore fosse capace, forse inconsapevolmente, di utilizzare il formidabile repertorio mimico che gli veniva da una disponibilità fisica degna di un Barnum e trasformasse questa disponibilità in una vivida prosperità dialettica, redimendo anche l’antico gesto circense in parola sapida, provocatrice, sempre simboleggiante e dandoci già per scontato il discorso e le conclusioni che avrebbero animato la cultura teatrale del nostro tempo.
Al libro, dunque di Ferraù e Amorosi va il merito di porsi come punto di riferimento per una “totologia” condenda che non potrà più “prescindere”dalle preziose testimonianze degli autori (Cinespettacolo, 11 dicembre 1993).