Proust nel salotto di Visconti

Non sono mai stato nel salon Visconti, ma se ne parlava tanto che neanche un insofferente, o un engagé di quei tempi avrebbe potuto sottrarsi all’impero di una moda e di un tic che avrebbero finito per travolgere tutta l’artisteria e il sottobosco teatrale – e non solo questi- dei gaudiosi anni Sessanta. E’, proustianamente, un salon Verdurin diretto da un Guermantes. Anche il verde che ricopre l’esterno della villa sulla Via Salaria ha una suggestione olfattiva e visiva proustiana. A casa del “conte” il tono sbrigliato lo dà il patron, un signore austero, cordiale, di belle maniere, un buon intrattenitore: è un’Oriane de Guermantes, cui l’accomuna la scia arancione della seconda sillaba del casato -nella pronuncia francese ant si nasalizza in ont-; anche il diminutivo Luchino sembra voler stabilire un equilibrio stilistico e una misteriosa allitterazione con Oriane. Nel suo salon chiunque può accedere, invitato o infiltrato: l’esprit ha ceduto il posto al pettegolezzo -che il patron media benevolmente- di attorini, di attricette, di pittorini, di scrittorini e di tanti paria dello spettacolo e della mondanità. Ci sono anche le star, Burt Lancaster, Silvana Mangano, Thomas Scippers, Leonard Bernstein, Renato Guttuso, Maria Callas, Romolo Valli, etc; ma la maggioranza è un bric-à-brac di aspiranti snob alla ricerca di un attimo di celebrità legata al fatto di essere stati da “Luchino”. La vita nel salon è animata dal gioco, in particolare dal gioco della torre, cui tutti possono partecipare, e il “Proust game”, riservato alla élite, una specie di “ordre de la mouche à miel” che stupisce le sparute comparse culturalmente astinenti, ma desiose di riproporre in basso quanto hanno sentito e trafugato a corte.
I ludi viscontiani scatenarono una vera e propria epidemia in circuiti mondani e pseudo-mondani: a chiunque poteva capitare di essere gettonato con perentoria richiesta di una rapida risposta alla domanda “chi butteresti giù dalla torre?” Finirono tutti precipitati. Il filone proustiano, certamente più culturale, decadde lentamente in banalissimi quiz, dove la naturale adesione del “conte” al mondo delle essenze di Proust venne scimmiottata dallo stuolo dei clientes in smodata proscenesi davanti a Marcel e in notizie aneddotiche, o accessorie: “Chi è Gilberte”?, “Che risponde il barone di Charlus a Madame Verdurin che ignora la sua completa identità?”,“Chi è l’originale di Vinteuil?, etc.
Ho conosciuto Visconti per caso nel ’64, alle favolose Nozze di Figaro realizzate con la sua regia. Rimasi inebetito, quando il “conte”, al quale ero stato presentato da un attore, mi disse, senza ombra di ironia, che aveva sentito parlare di me. Rimisi tutta la mia insofferenza e cominciai a riconsiderarlo anche per la sua corte di basso impero. Ho ripensato al suo salon, al suo taedium vitae che lo rendeva accessibile a tutti, alla sua personale “ricerca”. Il mondo di Proust, cui egli aveva aderito con tale dovizia di risorse del cuore, lo aveva rivelato a se stesso e gli aveva indicato il tempo perduto, il tempo che si perde nella vita e la resurrezione affidata alla creazione artistica che gli fornì il punto di vista esatto: “non è con l’intelligenza che si penetra il mistero delle cose”. Come accade nella Recherche, dove lo scrittore Bergotte suggerisce l’ottica corretta all’inesperto narratore adolescente prevenuto dalla fama della grande attrice Berma e deluso, ascoltandola in teatro, poiché non ha saputo ritrovare in sé le segrete e misteriose vie della comprensione.
L’apprendistato giovanile nelle file dell’improbabile neo-realismo gli aveva offerto la possibilità di soffermarsi sulle zone opache della storia, lontane dallo scintillio delle idee e dalla ridondanza dei nomi e gli aveva dato l’occasione di ispezionare la realtà nei suoi aspetti più repellenti di avidità e di cinismo. E dunque, alle nuove e propellenti aristocrazie di palazzinari e paninari, sempre più incalzanti, egli oppose la visione etica dell’estetismo che Proust gli aveva indicato e che egli tradusse, combinando liberamente le citazioni proustiane in sfolgoranti immagini filmiche. Nacque, così, la tessitura di Senso, dove le dissolvenze sgranate dal decadente languore bruchneriano, sembrano visualizzare delle autentiche “intermittenze del cuore”; mentre la visita di Alida Valli a Farley Granger (il Morel proustiano) nella guarnigione è una precisa ripresa della gita del narratore a Doncières, da Saint Loup, e nasce dal comune fondo emozionale a cui avevano attinto Proust e Visconti.
Nel 1962, quando il processo di degenerazione sociale aveva avviato la sistematica distruzione dei valori etici e simbolici tuttora in corso, Visconti affidò alla maschera impietrita di Burt Lancaster l’ultima strenua, seppur vana, difesa di quel mondo costruito sui miti e che stava crollando sotto i colpi dei poveri all’assalto. Nel Gattopardo la festa al castello rinnova il rito celebrato da Proust nella matinée Guermantes, dove si consuma la fine di una cultura nella metafora dei “neòteroi” di origine oscura che neppure capiscono i nomi smaglianti di antichi casati e li storpiano come in un automatico esercizio linguistico del metodo Berlitz. E così, il sindaco di Donnafugata che giunge con la coccarda di commendatore fresca di giornata sul frac che l’impacchetta, provoca il disperato gesto del principe di Salina che gliela strappa, perché in quel luogo tramandato dagli dei e suggello di civiltà e di memoria quel grado non conta; anche se la funerea tristezza impressa sul nobile volto esprime la coscienza di una nuova realtà sociale che è dalla parte del sindaco. La festa rappresenta lo stadio ultimo della déception; tuttavia, il “conte” tornerà ancora a Proust: se nel Gruppo di famiglia in un interno (1974) la desolata solitudine di Burt Lancaster fa rivivere la morte nell’oblio dell’intellettuale Swann, il nero che si scioglie e imprigiona in una rete il volto attonito dell’esteta (Dirk Bogarde) in Morte a Venezia 1971) e l’ipertrofica apocalisse di Ludwig (1973) costituiscono l’addio definitivo a una cultura -borghese- che pur aveva uguagliato i fasti e gli splendori della concezione aristocratica e religiosa. Tra le tante originali e memorabili citazioni proustiane, in Morte a Venezia si irradia l’immagine trasparente e trasumanata di Silvana Mangano con la sua gestualità essenziale e misteriosa per la quale Visconti deve avere avuto in mente la principessa di Guermantes. Anche il gruppo di ambigui e ingenui fanciulli sul Lido di Venezia sembra la felice riproposizione del gioioso rituale delle Jeunes filles en fleur.
A proposito delle tante ipotesi che si sono azzardate circa un progetto del regista per una Recherche, dico subito che mi sembrano avventate. Come si poteva rappresentare in una sola opera quanto egli aveva con tale sensibilità e intelligenza frantumato, sfumandolo, in tutti i suoi film, senza rischiare di ripetersi e sminuirsi in un film d’epoca? Il copione -che pur esiste- deve far parte, probabilmente, di una strategia economica -a cui il conte doveva essere piegato- che sfruttando le affinità elettive dei due grandi artisti, puntava su un sicuro successo. Ma Visconti resistette. (22 luglio 1992)

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