Eroi e dei sfrattati dall’antica Grecia

Quando Schliemann, sulle indicazioni di Omero, si recò nell’Argolide, vi trovò protetta dalla pace dell’oblio una provvida terra, il cui segreto custodito dall’eco imperitura di una memoria storica, si svelò al supplice venuto a interrogare i nascosti avelli. Da quella “religiosa pace” un Nume parlò e apparvero le auguste rovine di Micene, le tombe dei re e l’aureo tesoro che abbacinò per primo l’invasato archeologo. I lavori di scavo restituirono le testimonianze della storia immortalata dal canto di Omero. Dopo di lui, illuminati e ricchi borghesi della Belle Epoque accorsero in sacro pellegrinaggio in quei luoghi per riconoscere e rendere filiale omaggio alle Madri. Tanto avveniva oltre un secolo fa, quando le élites erano depositarie della cultura, quella vera, ancora non vilipesa e ridotta in feticismo. Vennero le due guerre mondiali e la reazione demagogica che promossero di grado le masse le quali ambirono al consumo di una cultura inflazionata e scaduta in status-symbol, divenendo complici, oltre che vittime del loro degrado. A partire dagli anni 60 la speculazione turistica e il consumismo a oltranza finirono col travolgere quello stupendo sacrario di civiltà che è Micene, precipitandolo in una tappa insensata di un folle viaggio culturale per bande di turisti, termiti ghiotte e vogliose di appagare le loro pulsioni pseudo-bovaristiche.
Oggi, pullman di ogni provenienza stazionano sul piazzale antistante l’ingresso alle rovine; ad essi si affiancano autovetture familiari, motociclette e ancor peggio, quei barbari contenitori di umani e di cattive abitudini che sono le roulottes. I moto-chioschi sempre gremiti a causa delle sollecitazioni fisiologiche -più irrinviabili per le masse- non consentono la consumazione sul posto: perciò, ansimanti, unti, sudorosi, in sommarie e orride tenute (immancabili minigonne e tennis per brevilinee) con marsupi e cappellini a visiera, hot-dog e bibitoni alla mano, i domestici turisti, sfidando la dolmenica maestà della porta sormontata da minacciosi, ma imbelli leoni, entrano nel sacrario e cominciano a spintoni la scalata alle eccelse rovine, alla cui sommità -dice la guida- svetta il megaron, premio effimero per i poveri ignari che hanno affrontato gli stenti di un’ardua impresa sotto i dardi del sole. Macchine fotografiche, cineprese, bambinacci rumorosi e recalcitranti rendono ancor più confusa e impacciata la circolazione e più inevitabile lo strofinio fra spaesati utenti culturali, magari dermopatici, ma uniti tutti insieme appassionatamente in un disarmonico bric-a-brac di cose e persone. C’è anche qualche sparuto pedone -forse uno studioso- con zaino a spalla che fatica a tenersi in piedi. Ma per completare la festa arriva in megavetture riciclate lo stuolo dei gitanti ellenici in chiave neorealistica, pronti a lanciarsi in questo carosello che ha acquisito ormai il valore di un’allegoria. Lo stesso spettacolo si replica, ingigantito, sull’Acropolis, sotto un sole reso ancor più ostile dai riflessi del nitore del marmo pentelico.
Come ci porremo davanti a un fenomeno che ha assunto, ormai, proporzioni tali da far temere per la salute dei monumenti stessi, dove, oltretutto, gli indegni eredi di Goethe, di Stendhal e di Byron gettano lattine e avanzi di cibi? “Febbre, Nume presente, io qui t’invoco”. Certo, è facile mettersi nella posizione di chi guarda le masse con fastidio; ma come difendere i Templi della Memoria dalla propaganda turistica che alletta tutti e per tutti i luoghi del mondo e che trova il più ampio consenso proprio negli strati culturali più primitivi e refrattari? D’altra parte, quando nuove forme di vita e di pensiero s’impongono è vano contrastarle in nome di vecchie abitudini: negarle non si può, ma è doveroso attaccarle per superarle. E allora diciamo subito che il turismo di massa è la forma più abietta di speculazione che, da una parte sfrutta l’insicurezza dei più fragili, la loro ansia di omologazione in una società che sforna modelli sempre nuovi di comportamento; dall’altra, coltiva cinicamente la loro ignoranza abituata già al cattivo gusto e al consumismo onnivoro, spinto fino ai souvenir orrorosi di Veneri e Partenoni in plastica, del tutto rispondenti, del resto, alle nostre bondieuseries vaticane; altro che finalità culturali!
E allora, basta con lo sbandierare il valore morale e simbolico dei ninnoli del passato, dal momento che il nostro essere moderni ci porta quotidianamente a distruggerlo, o quanto meno a negarlo. Non si è gettato un oceano di cemento (proprio come in Italia) accanto , o peggio, sopra le venerande rovine per consentire alle masse il possesso di squallide casette, o la sosta in alberghi più vicini possibile ai luoghi reclamizzati da reperti archeologici asfissiati e agonizzanti? E lo stesso progresso sociale non è forse inteso in senso restrittivo e settoriale di offesa alla natura e all’umanesimo? Fa ridere l’impennata di reprensibilissimi censori ellenici contro la pubblicità della Coca Cola, realizzata con la rastremazione delle eleganti colonne doriche del Partenone in colli di bottiglie della bevanda americana celebre almeno quanto il tempio della Dea Vergine, se non di più. Che cosa ha fatto insorgere l’orgoglio greco che da sempre si è prostrato davanti alla chiassosa grandeur d’oltre-oceano, da cui ha accolto ben altro che questa trovata divertente e trasgressiva non più della Gioconda di Duchamp con baffi e didascalia oscena: L H O O Q che, compitando, suona in francese come se si dicesse in italiano: lei ha caldo al culo.
Dovunque, in Grecia plastica e cattivo gusto. Atene, un tempo leggiadra metropoli liberty, ha ceduto sotto i colpi di selvaggi e palazzinari; i paesini, baluardi del folklore sono caduti per far posto all’edilizia povera per poveri arricchiti: la prestigiosa Loutraki, vicino Corinto, un tempo elegante e spettacolare ritrovo di persone civilizzate è paragonabile oggi a Decima, la più brutta e disumana periferia di Roma. Le isole resistono come possono, mettendo a nudo uno sforzo che non potrà reggere a lungo. Purtroppo, lo scempio della Grecia ha origini molto remote e ha raggiunto il suo picco estremo nell’azione sacrilega di lord Thomas Elgin -autore del trafugamento e della deportazione a Londra di lacerti sanguinanti del Partenone- e di sir Arthur Evans, responsabile delle deturpazioni e delle falsificazioni compiute nella reggia di Cnosso a Creta: “la perfida Albione”, aggiungendo barbarie a barbarie, si è macchiata di due nefandi delitti contro il patrimonio della civiltà.
Eppure…, eppure, “non è con gli occhi che si penetra il mistero delle cose” …; ancora è possibile al sensibile turista iconoclasta sentir battere il cuore … un sussulto: il rifluire di una memoria inconscia libera “l’essenza preziosa” e allora … un vecchio Vassili mutilato con raggianti occhi di mare, seduto in un’antica “ouzeri” ti parla della guerra e degli italiani brava gente (una razza, una faccia), ti invita a casa e ti offre il suo buon vino retzinato e canta e balla il “rembetika” per te; una Irene Papas in lutto ti racconta in cupo silenzio e con lo sguardo fisso e penetrante il suo antico dolore custodito come una sacra fiamma; un Vaios, un “palikari” biondo e bello come un Dio emerge al tramonto dal tempio di Sunion per offrirti la sua protezione, la sua naturale gentilezza e ti porta in una “tavernula”, dove canta e balla per te; mentre un Nikos saggio dagli occhi neri, tristi, mandorlati dal sorriso del cuore e illuminati dalla luce della mente, ti ripete, cantando, il mistero della vita. La Grecia rinasce, vive e ti dice che là sono stati gli Dei. (9 settembre 1992)

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